«Un thriller al cardiopalmo.» Publishers Weekly
Dall’autrice bestseller del New York Times
Gina Royal ha una vita assolutamente normale: è una timida e riservata casalinga del Midwest con un matrimonio felice e due bambini. Ma quando un incidente in macchina rivela la doppia vita di suo marito, tutto cambia. Mel, l’adorabile Mel, è un serial killer. Ha torturato e ucciso varie donne nel garage di casa. Sconvolta, Gina è costretta a crearsi una nuova identità dopo l’altra: anche se è stata scagionata dalle accuse di complicità, l’opinione pubblica la considera ancora un’assassina. Ed è così che si trasferisce nella località remota di Stillhouse Lake, con il nuovo nome di Gwen Proctor. Nonostante sia ancora bersaglio degli attacchi spietati degli stalker su internet, spera di aver trovato finalmente un posto in cui i suoi figli possano crescere sereni. Ma si sbaglia di grosso. Un corpo rinvenuto nel lago e alcune inquietanti lettere riportano a galla l’incubo da cui tentava di mettersi in salvo. Gwen dovrà cercare di proteggere coloro che ama da un pericolo strisciante e nascosto. E anche questa volta dovrà difendersi da sola.
Una vita tranquilla.
Una scoperta sconvolgente.
È impossibile cambiare vita se il pericolo è in agguato.
«Un thriller al cardiopalmo. L’autrice ha costruito una storia potente sull’amore materno e sul coraggio che serve per farsi una nuova vita.»
Publishers Weekly
«Un thriller da brivido.»
Criminal Element
«Un libro che toglie il fiato dall’inizio alla fine.»
Fresh Fiction
Conoscete tutti la favola di Barbablù?
E’ una delle mie preferite e non perché è, diciamo, splatter e terrificante, ma perché racconta di qualcosa che sento vicina, ossia la capacità di identificazione del male.
Insomma Barbablù è ricco, potente e affascinante.
L’unica nota stonata è un pelo blu inquietante che spunta dalla barba bionda o rossiccia a seconda della versione della fiaba. Egli irretisce giovani ingenue, troppo impegnate ad assecondare il ruolo che la società e la famiglia preparano per loro; incapaci di concepire un mondo leggermente diverso o una diversa identità. Quando si guardano allo specchio non vedono loro stesse ma sempre e solo una maschera.
E così Barbablù offre su un piatto argenteo ogni compensazione alla mancanza di verità e d’essenza presenti nell’interpretazione che di se stessa dà la vittima, perché già di vittima si parla, se incapace di concepire un viso diverso e una diversa fine alla sua storia.
Ma Barbablù le seduce, le lusinga e le fa sentire speciali, quando esse sono piene di dubbi e di frustrazioni. Un uomo perfetto, accattivante e suadente, capace di brillanti concertazioni e di focose performance amorose.
Peccato per una piccola devianza, una quisquilia: la sua voracità di predatore, Barbablù le donne le seduce per privarle di energia vitale, insomma le uccide.
Le umilia, le violenta e poi le fa a pezzi nascondendo i suoi misfatti in una stanza segreta, laddove nessuno mai deve arrivare.
Nessuno deve aprire quella porta.
La fiaba continua ovviamente e quella porta, per violazione del tabù supremo “non fare”, viene spalancata. La vista è insopportabile, non solo per l’orrore, ma per il senso di colpa. Perché è stato incapace di vedere e capire che quel pelo blu nella barba era indice di depravazione.
La donna diviene quasi complice, una piccola aiutante del mostro che lo lascia libero di dominarla con la sua acquiescenza silente. Magari si accontenta delle spiegazioni brumose, chiude gli occhi della sua intuizione, si fa bastare quel poco che Barbablù le offre.
Si perché, credetemi, in cambio del vedere, Barbablù non offre poi molto: forse ville, lusso, gioielli.
Ma cosa se ne fa un’anima privata dell’aria necessaria per respirare, di quella gabbia dorata?
L’anima, se non respira, muore.
Ecco mi sono chiesta cosa sarebbe accaduto a me, se un giorno avessi aperto la porta di Barbablù.
Non ho mai avuto menti eccelse nel mio carnet da ballo della sala chiamata amore.
Anzi, oserei dire che ho attirato coglioni come il miele attira le mosche. Ma, per fortuna, erano bambocci con la sindrome di Peter pan e del macho che nasconde il micio.
Ma se invece di innocui deficienti, fossero stati predatori?
Cosa ne sarebbe stato di me?
Immaginate la scena: un giorno come un altro, mentre si pregusta una tranquilla quasi noiosa serata in famiglia, un Dio beffardo decide di aprire la porta segreta di Barbablù e farvi vedere il sangue.
L’effetto è devastante.
Perché in fondo complici ci sentiremmo, come abbiamo potuto non vedere?
Anche se non materialmente alleati del mostro, ci sentiremmo alibi, mezzi con i quali la strada è stata spianata.
Ma non solo noi : tutto il vicinato, tutta la strada e la provincia intera sarebbero complici di quel “non vedere”; di quell’assurdo identificare il male con la bruttura, quando invece il male si nasconde sotto tappeti eleganti e nei giardini curati dei resort di lusso o dietro volti anonimi del bravo padre di famiglia.
Il peso è troppo.
E in tal caso necessita di un capro espiratorio, e chi meglio della sua compagna di vita?
L’unica che, dopo la famiglia, ci perde davvero: perde il suo volto, ogni certezza ma, sopratutto, la fiducia in se stessa.
Gina è quest’emblema.
Sacrificata perché la società è incapace di un vero controllo collettivo, sacrificata in nome di un certo voyeurismo nel guardare il male, sicuri nelle proprie poltrone, protetti da un monitor.
In fondo sto solo colpendo la piccola aiutante no?
Non sono un vero mostro.
La vicenda agghiacciante raccontata in questo testo, ci mostra che in realtà i mostri siamo tutti noi.
Noi che voltiamo la faccia, e ci assolviamo cercando di colpire con la stessa violenza ciò che non volevamo vedere.
I mostri li creiamo noi perché incapaci di consapevolezza.
Cerchiamo i germi nell’immondizia e lasciamo che le blatte invadano i nostri salotti.
Magari cenano con noi, o giocano con noi a Burraco.
Ecco questo libro secondo me su questo fa riflettere.
Perché se la libertà di vedere viene tradita, nessun posto si può chiamare civile.
Ma siamo tutti vittime più o meno complici di Barbablù.
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