Recensione “Mi chiamo Harry Gray” di Giorgio Pulvirenti

 

Inverno 1944, Pacifico meridionale. Cosa spinge il cinquantenne Harry Gray ad arruolarsi volontario nei marines, come cuoco, a bordo della portaerei “USS Tryon” nel bel mezzo della guerra giunta al suo punto cruciale con la “Battaglia di Tarawa”? Da cosa vuole scappare? Tra i feriti a bordo conoscerà il giovane Rupert, unico pilota superstite di un attacco aereo da parte dei giapponesi. La diffidenza di Harry si scontrerà con la curiosità del ragazzo che lo spingerà, inaspettatamente, a rivelargli importanti segreti celati da oltre vent’anni. Un incontro che rappresenterà un assaggio di umanità in mezzo all’inferno che, inesorabile, continuerà a consumarsi fuori dalla nave. La voce narrante di Harry ci trasporterà nella pittoresca Louisiana degli anni ’20.

 

Una storia raccontata a seguito di mille domande curiose poste da un pilota superstite di un attacco aereo giapponese, così Harry Gray svelerà la sua amara storia.

Gli eventi dell’infanzia di Harry ci condurranno nella Louisiana degli anni ’20, dove il Jazz uscì fuori dalla comunità nera e Louis Armstrong divenne una celebrità.

Una lettura che si distingue per i suoi tratti angoscianti, tristi e per altri avvincenti, le immagini descritte dall’autore si susseguono sotto ai nostri anni sotto forma di un vecchio film.

Una storia cruda, senza troppi giri di parole, intensa, a tratti noir, ambientato in uno spaccato di storia americana dove il razzismo era al suo picco e ogni “piccolo” essere afroamericano era considerato, inutile, delinquente e spregevole.

La storia della famiglia Gray è narrata da un Harry ormai adulto che, con occhio critico e con la saggezza acquisita nel tempo, riesce a donare la giusta enfasi e il giusto “conforto” agli eventi.

L’epilogo dolceamaro è consono alla storia, che all’avvincente narrazione accosta tratti tormentati e struggenti.

 

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