INTERVISTA A… Francesco Grandis

Buongiorno Francesco e benvenuto nel nostro salottino virtuale delle interviste.

 

Ho appena terminato la lettura del tuo romanzo Ifalik e devo ancora riprendermi dal finale!

Volendo evitare di spoilerare ai lettori la conclusione della storia, vorrei farti qualche domanda e cercherò di rimanere sul vago.

 

Quando ho iniziato la lettura di Ifalik mi è sembrato di essere in quel telefilm della nostra infanzia “Ai confini della realtà” per poi ricordarmi un po’ “Cast away”, cosa ha ispirato in te il desiderio di raccontare questa storia?

L’immagine dell’isola e dell’oceano sotto la montagna è una delle tante che spuntano per caso, senza particolare motivo come a volte capita, ma non sono più riuscito a staccarmene. C’era qualcosa di magnetico che mi costringeva a tornare a quell’isola, e pian piano l’ho popolata. Un bambino, perché mi “serviva” qualcuno di innocente. Un peluche, perché c’era bisogno di una spalla. La tempesta, per creare il conflitto. Ho attinto a tante esperienze pregresse, libri letti e film visti per creare lo strano mix che hai appena terminato di leggere. Il percorso che ho seguito non è stato lineare e per lungo tempo ho temuto di non riuscire a chiuderlo, ma, quando sono arrivato a “scoprire” il finale – per quanto mi riguarda l’unico finale possibile – questo era talmente tanto ben incastrato con tutto il resto che sapevo di avere una storia che meritava di essere raccontata. E così ho sentito l’esigenza di “liberare” il bambino, un personaggio così tanto reale nella mia mente che ho sofferto nell’isola con lui, mentre mi costringevo a lasciarlo solo, con troppe domande e poche risposte. 

 

Il protagonista della storia sembra essere sin da subito in grado di elaborare pensieri critici superiori alla media di un bambino, a volte l’ho trovato addirittura eccessivo, ma poi a conti fatti poteva avere una spiegazione valida. È stata una scelta mirata?

Il bambino potrebbe sembrare strano al lettore: a volte potrebbe trovarlo molto infantile, altre volte estremamente adattabile e profondo. La spiegazione, su cui non posso dilungarmi troppo per non rovinare nulla al lettore, risiede nell’altrettanta strana vita che condurrà sull’Isola: sui libri che legge, sulla totale assenza di confronto con il prossimo. Non è stato facile immaginare come potrebbe crescere una persona in un contesto simile, e chiaramente posso aver commesso errori o imprecisioni, ma credo di essere riuscito (spero!) a far emergere comunque la sua grande umanità e il suo difficile percorso di crescita. 

Di una cosa posso assicurare il lettore: il finale darà tutte le risposte!

 

Ogni romanzo comporta delle ricerche preliminari, su quali argomenti ti sei concentrato per questo?

In particolare nell’aspetto della sopravvivenza. Già in passato mi ero posto problemi simili per curiosità mia (da qualche parte ho raccontato di quando “giocavo” a fare il naufrago sui laghi desolati della Scandinavia), ma per la stesura di Ifalik sono andato più in profondità e mi sono dedicato alla lettura di vari manuali, a studiare tecniche, a capire come potrebbe realisticamente sopravvivere un bambino lasciato da solo in un’isola, con alcuni strumenti a disposizione. Mi sono documentato così tanto che poi ho dovuto trattenermi nella stesura del romanzo, per evitare di renderlo troppo noioso! 

Un altro aspetto importante è stato quello dei risvolti psicologici, specialmente quello della solitudine. Ho letto svariati libri sull’argomento, ma fortunatamente ho anche una vicina di casa psicologa che si occupa proprio dei temi che interessavano e così, tra una paella e una birra (vivo in Spagna), mi ha aiutato a chiarirmi le idee!

 

Da padre cosa hai provato a scrivere di una situazione simile?

Ho sofferto. Ho un figlio di una decina d’anni e, per quanto cercassi con tutte le mie forze di non pensare a lui mentre descrivevo le esperienze, alcune terribili, che capitavano al protagonista della storia, che ha circa quell’età quando arriva sull’Isola, a volte è stato inevitabile farlo. Quando mi capitava di pensare a mio figlio durante la scrittura, interrompevo e correvo da lui, per abbracciarlo, per stringerlo, per dirgli che gli volevo bene. Avevo bisogno di sentire che c’era, che era presente e solido tra le mie braccia. Se era notte, andavo a guardarlo, per calmarmi ascoltando il suo respiro tranquillo. Confesso che non è stato facile immergermi nel mondo di fantasia mantenendo ben separato il mio mondo reale. Alcune di quelle pagine sono bagnate di lacrime. 

 

Questo è il tuo primo romanzo che leggo, ci parli un po’ di te e di cosa hai scritto e in quale genere ti senti più a tuo agio?

Ho avuto una vita un po’ movimentata. Sono “nato” come ingegnere informatico e lavoravo con i robot, poi, nel 2009, in piena crisi economica, ho mollato tutto per fare il giro del mondo da solo. Sei mesi attorno al pianeta per schiarirmi i pensieri. Tornato con idee molto diverse sulla vita e sulla felicità, ho vagabondato qualche anno lavorando sempre come programmatore (oggi si chiamano “nomadi digitali”, a quel tempo non credo esistesse ancora quella definizione), fino al momento in cui ho mollato anche quella strada per dedicarmi solo alla scrittura, inizialmente attraverso il blog Wandering Wil (che non seguo più ma che è ancora online), poi con il mio primo libro Sulla strada giusta, di ormai dieci anni fa, in cui racconto le mie esperienze di vita e i pensieri che mi hanno portato a viverle. Quel libro, che ha avuto un grande e inaspettato successo in termini di vendite e di vite cambiate, mi ha catapultato definitivamente nel mondo della scrittura. Qualche anno dopo è uscito The end, un thriller distopico e infine Ifalik. Non sono uno scrittore veloce: dieci anni per tre libri. Nel frattempo sono pure riuscito ad aprirmi una casa editrice assieme ad alcuni soci. 

Per quanto riguarda i generi, nonostante io sia un grande appassionato della narrativa fantastica, non mi sento legato a uno in particolare: amo le storie che intrattengono ma fanno anche pensare. Amo i personaggi complessi e umani, con tutto il loro bagaglio di paure e progetti. E amo soprattutto il percorso che porta ognuno di noi a cercare il proprio posto nel mondo: lo facevo io, nell’autobiografico Sulla strada giusta; lo fa Matthew Freeman, nel mondo distopico di The end; lo fa il bambino, nell’isola di Ifalik. 

Forse perché è quello che facciamo un po’ tutti, no?

 

Quali sono i tuoi progetti futuri?

Eh, bella domanda. Mi piacerebbe saperlo.
Sono sincero: l’età avanza, mio figlio cresce velocemente e sento l’esigenza di passare più tempo con lui, prima che sia troppo grande per voler stare ancora con il suo vecchio padre. Vorrei viaggiare, mostrargli il mondo che ho già visto e scoprine di nuovo assieme, mano nella mano. 

Poi avrò fin troppo tempo per scrivere altre storie, ammesso di avere ancora voglia di superare tutti gli ostacoli che il mondo editoriale ti mette contro (ci vorrebbe un’intervista a parte solo per parlare di questo), ma per adesso, lui è più importante. 

In pratica, storie ne avrei e vorrei scrivere altro, ma non so se lo farò, né se lo farò presto. 

 

Ti ringrazio per essere stato con noi.

 

Anna

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