Chi conosce Martina sa che è una guerriera.
Non ha paura di scendere in battaglia. Affrontando sempre tutto a testa alta. Non si arrende. Soprattutto non si autocommisera per la sua condizione, la usa piuttosto come carta vincente.
Martina è anche una leonessa. Dentro sé spera di toccare con il suo ruggito i cuori del mondo.
La disabilità fisica non impedisce a Martina di “vivere”: la fanciulla sperimenta sì il dolore, la sofferenza, l’emarginazione, ma anche l’affetto, l’amore, l’adrenalina per le esperienze estreme non negate.
L’autrice, in modo disinvolto ma a piccoli passi, permette al lettore di accedere ad un altro mondo “il suo mondo”.
Prima ci si affaccia poi, delicatamente ma progressivamente, si aprono singole finestrelle, alcune piccine, altre più grandi, ma tutte, indistintamente, una volta dischiuse restano tali.
Martina non tace su nulla, nemmeno su ciò che potrebbe sembrare un tabù. Tutto diventa avvicinabile e consente ad un attento lettore di introdursi nell’io più vero, più profondo della ragazza.
Ed ecco, oplà, si sfogliano le ultime pagine e ci si rende conto di essersi trasformati: non si è più il lettore di un libro, ma qualcosa di diverso. Si diventa il complice, il confidente di Martina.
E allora è tutto più chiaro: l’immagine visiva che affiorava dal titolo del libro svanisce davanti alla forza ed alla positività della protagonista.
Lei è riuscita nel suo intento “ […] lasciare un segno in questo mondo, un segno di luce, di gioia e di speranza“.
Il libro è arricchito dalla descrizione delle due figure genitoriali complementari: il padre le fa vivere ordinarie e singolari esperienze, da ragazzina prima e da adolescente poi, forse celando, sostanzialmente, la mancata accettazione dell’handicap della figlia; la madre che appare quasi come una figura “appositamente creata”, un perfetto porto sicuro, pronta ad abbracciare Martina, senza giudicarla e, come sua unica forza, la capacità dell’ascolto e della flessibilità.
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