Afghanistan. Homeira è cresciuta a Herat, una città devastata sotto l’occupazione russa, prima di trasferirsi a Kabul. La paura è stata sua compagna di giochi fin da bambina, ma lei non ha mai smesso di sperare e di sognare, grazie ai suoi amati libri, tutti i posti del mondo in cui il canto degli uccelli o il soffio del vento non fossero sovrastati dal suono delle bombe. Quando i talebani prendono il potere, però, la vita si complica ulteriormente per le donne e le ragazze afgane, che si vedono privare di ogni diritto: possono uscire soltanto coperte con il burqa e accompagnate da un parente maschio, e viene vietata loro ogni forma di istruzione. Homeira, che è sempre stata uno spirito libero, non può accettarlo. Ma sarà l’aperta ribellione al marito che le farà perdere il suo bene più prezioso: suo figlio.
Una denuncia sociale, l’Afghanistan visto, vissuto e raccontato da una donna, in un territorio, dove lei stessa non ha diritto di parola, di espressione e di vivere.
“Guerra e fame, sonio questi i miei primi ricordi.”
Un’autobiografia epistolare in cui Homeira racconta al suo bambino la storia della sua vita, dall’infanzia al matrimonio imposto, il parto e infine il divorzio, con il quale le viene provato ogni diritto sul bambino.
“Sono trascorse novecentottantacinque notti da quando ti hanno sottratto alle mie braccia.”
Lei è un’attivista della città di Kabul, rivoluzionaria nella sua vita, una delle poche donne che lavorano e proteggono con unghie e denti l’indipendenza conquistata.
Una città devastata dall’occupazione russa e i talebani che prendendo il potere ne decreteranno le sorti e l’imminente fine.
Bello il libro, ottima la scelta della trama la sua elaborazione e la storia che turba il giusto senza entrare nel vittimismo o nella storia vera e propria, una sorta di denuncia a “bassa voce”, una conoscenza ulteriore di quel mondo che sconosciamo e che ci fa paura.
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