Carrie Denbrough, diciassettenne alle prese con i tumulti delle prime cotte adolescenziali, annota ogni singola esperienza sul suo fedelissimo diario. Ed è proprio tra quelle pagine che si nasconde una bizzarra lista di fasi, riguardanti una malattia che, la piccola Carrie di cinque anni, ha diagnosticato ai maschi fin dai primi sintomi, meglio conosciuta come ‘La sindrome del lieto fine’. Tutti i ragazzi con cui è uscita, non hanno fatto altro che avvalorare la sua tesi, allontanandola sempre più dall’idea di poter costruire relazioni durature, basate sul famigerato happy ending. Ma, improvvisamente, qualcosa sfugge alla sua affidabile SDLF. Ad un biondino impertinente, con un’innata passione per la filosofia, proprio non va giù la fase 10: il rifiuto. Ed è così che tra battibecchi coloriti, weekend in montagna e surfate in pieno dicembre sulle spiagge della California, Alex Lancaster proverà in tutti i modi a mandare all’aria ogni singolo punto della lista e a sciogliere lo scettico cuore di Carrie, carezza dopo carezza. Ma non dimentichiamoci il motivo per cui quest’amabile ragazza porta il suo nome: mettete da parte per un secondo l’eroina di Sex and the city e concentratevi più sul genere di Stephen King. Solo allora, forse, avrete ben chiaro di che pasta è fatta l’anaffettiva protagonista di questa storia.
A volte mi capita di leggere libri che, come dire, vanno un po’ fuori tema. In genere sono libri che nascono con una trama ben precisa, ben sviluppata anche per diversi capitoli, poi, per qualche motivo, inciampano lungo il cammino, perdendo per strada la loro struttura di fondo. Il risultato? Una storia divisa a metà, dove una parte rispecchia la trama, l’altra invece, benché bella e curata, non ha nulla a che vedere con la prima.
Ahimè, temo che questo romanzo ne sia un esempio.
Attenzione: non sto dicendo che La sindrome del lieto fine sia una brutta storia (tutt’altro!) ma è come se ad un certo punto ci trovassimo davanti a due libri differenti: il primo, quello presentato nella trama, poteva tranquillamente trovare la fine più o meno intorno al tredicesimo capitolo, quella era la sua natura; i punti “della sindrome” con cui Carrie etichettava il comportamento dei ragazzi interessati a lei erano stati depennati e conclusi, Alex aveva vinto, il lieto fine era arrivato, perché continuare? Da quel momento in poi, infatti, la storia cambia e prende vita un nuovo romanzo, il seguito sicuramente, ma che non rispecchia il titolo e lo stile con cui l’opera era stata presentata inizialmente. Credo che ad un certo punto anche l’autrice se ne renda conto, perché sul finale aggiusta il tiro tentando di riallacciarsi al tema principale, ma il risultato sa un po’ di forzatura.
Due parti quindi, con due intensità differenti: una fresca, allegra e divertente che ricorda lo stile chick-lit, l’altra più intensa e profonda, tipica dei romance.
Sono questi i libri più difficili da recensire perché per metà li adori e per l’altra metà ti rendi conto di leggere “altro” e di non provare più le stesse emozioni dell’inizio.
Peccato, perché la storia è scritta bene, i capitoli si leggono velocemente e i protagonisti sono tosti e divertenti.
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