Recensione “Mi chiamo Oleg. Sono sopravvissuto ad Auschwitz” di Oleg Mandic e Filippo Boni

 

Ha undici anni Oleg Mandić, quando l’Armata Rossa entra ad Auschwitz per liberare gli ultimi sopravvissuti. Nato a Sušac, attuale Croazia, nel 1944 viene arrestato con la madre e la nonna e deportato. Non è ebreo ma prigioniero politico, perché suo padre e suo nonno, dopo l’occupazione, si sono uniti ai partigiani. Ad Auschwitz sperimenta e sopporta l’inimmaginabile: la fame, i lavori forzati, i continui soprusi delle SS; finisce anche nel famigerato reparto del dottor Mengele, da cui i bambini spariscono senza che nessuno ne sappia più nulla. La morte, nel campo, è ovunque: c’è chi la cerca per disperazione gettandosi contro il recinto elettrificato e chi, appena sceso dal treno, già finisce per trasformarsi in fumo e uscire dai crematori. Oleg, invece, si salva. Per caso, per fortuna, forse per destino. Per anni tiene sotto chiave i ricordi, incapace di descrivere ciò che ha vissuto. Ma quando riaffiorano, insieme a loro arriva il bisogno di tornare, di rivedere quei luoghi, darne testimonianza e rispondere al richiamo di una misteriosa lettera… «Alle mie spalle si chiuse il cancello di Auschwitze si abbassò la sbarra con sopra la storica frase: “Arbeit macht frei”. Sono stato l’ultimo prigioniero a uscirne vivo.»

 

Arbeit macht frei, la scritta che tutti ricordano e che ha il sapore dell’orrore, il colore delle lacrime e la paura cucita in quelle lettere che dovevano, per ironia, creare speranza e che invece ha distrutto vite, sogni e umanità.

Oleg è l’ultimo bambino sopravvissuto ad Auschwitz, anzi meglio dire l’ultimo bambino salvato in quel campo, colui che abbassò la sbarra di quell’inferno per ritornare alla vita.

Ricordiamo, con questa storia, il milione e mezzo di bambini che furono massacrati dai nazisti, coloro che non hanno potuto dar voce alla loro storia, coloro che hanno solo versato lacrime e vissuto di paura.

Inizia con un biglietto che Oleg riceve “188792. Ti aspetto ad Auschwitz il 15 giugno alle 17. Sotto al vostro albero. Ho bisogno di ritrovare lui tramite te.”

Inizia così la storia di Oleg, fatta di ricordi la maggior parte tristi, fatti di ferro spinato che limitava la libertà, di fame che divorava l’anima, una storia che prende forma sotto a quell’albero maestoso, una betulla, che sapeva di vita, che ascoltava le parole mai dette, che fu protagonista di un ultimo straziante abbraccio.

Oleg parte da solo per Auschwitz ripercorrendo la sua storia in attesa di quell’incontro che dovrà donare la tanta agognata pace.

“Chi è sopravvissuto campa condannato all’ergastolo dell’orrore che rimane impresso nella memoria, molto più indelebile del tatuaggio sull’avambraccio.”

Vivremo la guerra e vivremo sotto gli occhi di un bambino che, solo contro la morte, cerca di sopravvivere e vedrà finalmente il mare.

Inutile dire che le lacrime versate sono state fin troppe, troppi gli orrori letti e non si è mai pronti e preparati a mille racconti del genere.

 

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