Titolo: Le croci in piazza
Autrice: Fulvia Cipriani, con illustrazioni di Sara Vettori
Editore: Brè Edizioni
Pagine: 352
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Genere: Thriller – noir
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In vendita dal 22 agosto 23
Quando il cadavere di una donna viene ritrovato in una casa abbandonata sull’Appennino toscano, la gente del paese è sicura che si tratti della nipote della vecchia proprietaria deceduta da anni.
Dopo un primo momento di paradossale stupore Camilla si interroga: quella donna che tanto le somiglia non è lei, di questo è certa, lei è viva e sta bene. Quindi di chi si tratta? Un mistero, un thriller complicato che indaga i rapporti familiari e obbliga a confrontarsi con un vissuto che si vuole dimenticare.
Una storia di famiglie, ciascuna con la sua croce e il suo fardello di menzogne, ma anche con un’eredità d’amore da preservare: fratelli e sorelle, legati da un rapporto così forte da superare anni di silenzio e voragini di rancore; padri e madri che lottano per i propri figli; nonni che sanno più degli altri, che conoscono le cose ancor prima che accadano, perché la vita, l’esperienza li ha resi saggi, quasi indovini. In un Appennino duro e pieno di segreti, i crimini di oggi s’intrecciano a vecchie disgrazie e si confondono con le ombre del passato.
Estratto:
È difficile descrivere la potenza del sentimento che lega due amici adolescenti. Pur appartenendo alla vasta e nobile schiera dei sentimenti amicali, esso assume talvolta connotati più assimilabili all’infatuazione amorosa. Tra i due si crea un legame strettissimo, una sorta di simbiosi, che dal rapporto amoroso mutua perfino gli aspetti meno edificanti, come la gelosia. Si vive della vita dell’altro, dei ritmi dell’altro, si desiderano le stesse cose che desidera l’altro. Non ha niente a che vedere, questo tipo di rapporto, con le “affinità elettive” che sviluppiamo più tardi, in età matura, quando già la nostra coscienza e il nostro pensiero sono formati, con un gusto proprio, una propria etica, un proprio ordine di valori – o, almeno, si suppone che lo siano – e ci guidano verso individui nei quali ci si possa riconoscere. Non ha niente a che vedere nemmeno con le amicizie di circostanza, quelle, altrettanto importanti, forse un po’ meno auliche, che coltiviamo ancor più avanti nell’età, allo scopo di sentirci parte di un contesto sociale, o anche di passare del tempo in modo piacevole. Gli amici del sabato sera, delle barzellette, o delle cene tra colleghi, per intenderci. In entrambi questi casi l’amicizia si basa sulla scelta, è frutto del libero arbitrio. Prima, durante l’infanzia e l’adolescenza, l’amicizia è frutto dell’istinto e della casualità.
Era un caso che Cristina Sandrucci fosse la nipote dei miei vicini di Raddino e passasse molto tempo a casa dei nonni e degli zii, dal momento che i suoi lavoravano entrambi sull’autostrada, il padre alle manutenzioni, la madre all’autogrill. L’istinto mi diceva che quella bambina paffutella, di poco più grande di me, era incline ad assecondare con pazienza i miei voli pindarici e a sopportare le mie bizze senza farsele venire a noia. Era una bambina riflessiva e ubbidiente, allegra, addirittura ardente nei sentimenti, ma capace di scalmanarsi, di abbandonarsi alle risate pazze e di confidarsi solo dopo aver abbattuto il velo della timidezza. Per contro, ho realizzato molto più tardi, io ero una bambina viziata, abituata ad averle tutte vinte, circondata dalle costanti attenzioni dei miei familiari. Ero l’unica figlia femmina e la più piccina di casa. I Berni maschi non avevano occhi che per me. La mamma un po’ mi vezzeggiava, un po’ mi tollerava con indulgenza. L’unica a non piegarsi ai miei dettami da principessa sul pisello era nonna Rosina, che non mi riservava alcuna attenzione speciale e mi sgridava se combinavo qualche malestro, trattandomi al pari degli altri figlioli che transitavano per casa: Cristina, appunto, Michele, e Bruno, per quanto fosse più grandicello. Questa dimensione d’imparzialità e d’uguaglianza fu uno degli elementi che favorì il nascere di una solida amicizia con quella bambina dell’Appennino che viveva in un contesto tanto diverso dal mio. Fino ai miei diciotto anni, venti per lei, siamo state legate da un sentimento fortissimo, nonostante abitassimo a oltre cinquanta chilometri di distanza. Attendevamo con impazienza le vacanze estive per trascorrere insieme intere giornate, e durante l’inverno ci telefonavamo almeno una volta la settimana e ci scrivevamo lunghe lettere, sempre velate di leggera malinconia, nelle quali, oltre a raccontarci le cose che ci capitavano, filosofeggiavamo sulla vita, sull’amore, sugli studi, sull’importanza del destino.
Il nostro rapporto iniziò a deteriorarsi con la prima delle disgrazie che capitarono a noi Berni, la morte di nonna Rosina. Da lì, la mia vita precipitò in un vortice di eventi dolorosi, che non ero preparata ad affrontare. Invece di chiedere aiuto, come sarebbe stato sano e auspicabile, mi chiusi a riccio, innalzando una barriera di ghiaccio soprattutto con le persone che fino ad allora mi erano state più vicine. L’ultima volta che vidi Cristina Sandrucci fu nel ’97, al funerale di mia madre.
L’insegna del ristorante Zabriskie era contornata da lucine luminose. Nel complesso la grafica non era male, né per i caratteri della scritta, che spiccavano dorati sullo sfondo nero, né per la piccola palma stilizzata, anch’essa dorata, apposta di fianco al nome dell’attività. Tutto l’insieme però creava un contrasto bizzarro con l’ambiente circostante, caratterizzato dall’asprezza tipica dei paesini dell’alto Appennino toscano, e da una vegetazione che distava anni luce dalla pianta che avevano adottato per il logo del ristorante. Mi chiesi chi fosse quel genio che aveva osato portare una palma a Raddino.
Anche l’interno del ristorante non aveva molto a che fare con l’insegna: i tavolini in legno e le tovagliette di carta gialla erano quelli tipici di tante osterie toscane e il menù scritto col gessetto sulla lavagna, notai, offriva soltanto piatti della tradizione locale. Una ragazzotta dall’aria bonaria mi venne incontro chiedendomi in quanti fossimo e se avessimo prenotato. Spiegai che non intendevo restare a cena, ero solo di passaggio per salutare la signora Cristina Sandrucci, che mi avevano detto avrei potuto trovare lì. La ragazza sparì in cucina e riapparve dopo poco, dicendomi di aspettare qualche minuto. Nell’attesa mi offrì un prosecco, che accettai di buon grado. Mi resi conto che avevo sete, sete di alcol, e bisogno di rilassarmi. Quando Cristina apparve, da dietro il bancone, guardandomi con aria perplessa, capii all’istante che sua zia Lorella non le aveva anticipato niente della mia visita, temendo forse che non mi fermassi a salutarla come invece avevo promesso. Mi squadrò con aria incredula, poi scosse la testa e tornò in cucina. Riapparve quasi subito: si tamponava gli occhi con un fazzoletto bianco e singhiozzava, fece il giro del bancone, scosse di nuovo la testa e mi abbracciò, scoppiando in lacrime.
Mi tenne stretta a lungo, ritta sulla punta dei piedi per arrivarmi al collo, visto che ero abbastanza più alta di lei. Poi si staccò, scosse ancora il capo, si sforzò di sorridere e disse: «Siediti, ti porto da mangiare.»
Obbedii, io che avevo sempre fatto di testa mia e che tra le due ero quella che prendeva l’iniziativa. Sedetti al tavolino che mi indicò e mentre lei tornava in cucina mi accorsi che anch’io avevo il volto bagnato.
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